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Il “valore” dell’intelligenza umana nell’era dell’AI
L’intelligenza umana è stata, per millenni, la forza trainante dietro l’evoluzione e la crescita della società. Come varierà il suo valore economico sociale, ora che le macchine iniziano ad “imitarla”?
DukeRem8 dicembre 2024

Nel nuovo articolo di approfondimento di Turtle’s AI, affrontiamo un tema molto delicato, ma enormemente importante. L’intelligenza umana è stata, per millenni, la forza trainante dietro l’evoluzione e la crescita della società. Per la prima volta, le macchine artificiali mostrano forme di "comportamento" che “ricordano” questa caratteristica finora unicamente umana. Pensiamo ai molti bot capaci ormai di rispondere in modo appropriato o addirittura di “simulare” (o emulare?) ragionamenti complessi, come il recente modello o1 di OpenAI. Questo sviluppo ci porta a svolgere una profonda riflessione sul valore (antropologico ed economico) dell’intelligenza umana nella nostra società.

 

L’intelligenza, nel suo senso più ampio, è la capacità di adattarsi a nuove situazioni, risolvere problemi e generare idee innovative. Filosoficamente, la nozione di intelligenza è stata analizzata attraverso strutture che esplorano la natura del pensiero, del ragionamento e dell’autocoscienza. Immanuel Kant enfatizzava la ragione come fondamento dell’intelligenza umana, contrapposta alla mera percezione sensoriale. Le interpretazioni moderne ampliano questa dicotomia, esaminando la replica meccanica dei compiti cognitivi da parte delle macchine. L’emergere dell’intelligenza artificiale sfida i confini del pensiero kantiano, poiché l’AI dimostra abilità nella logica e nella risoluzione di problemi, pur mancando delle dimensioni soggettive e autoriflessive che Kant associava alla ragione umana.

Negli sviluppi più recenti, la filosofia dell’intelligenza ha ampliato la sua prospettiva, includendo teorie che riconoscono la molteplicità delle capacità cognitive umane. Ad esempio, la teoria delle intelligenze multiple proposta da Howard Gardner identifica diverse forme di intelligenza, tra cui quella logico-matematica, linguistica, spaziale, musicale, corporeo-cinestetica, interpersonale e intrapersonale, suggerendo che l’intelligenza non sia un’entità monolitica ma un insieme di abilità distinte.

Parallelamente, Robert Sternberg ha introdotto la “teoria triarchica dell’intelligenza”, che distingue tra intelligenza analitica, creativa e pratica. Questa teoria sottolinea l’importanza di adattarsi efficacemente all’ambiente, combinando diverse capacità cognitive per affrontare le sfide quotidiane e contingenti.

Inoltre, l’intelligenza emotiva è emersa come un concetto chiave, focalizzandosi sulla capacità di riconoscere, comprendere e gestire le proprie emozioni e quelle altrui. Questo aspetto dell’intelligenza è considerato cruciale per le interazioni sociali ed il benessere personale, ma - come diremo tra poco - anche in contesti di tipo organizzativo ed aziendale.

 

La semiotica, ovvero lo studio dei segni e del loro significato, offre dal canto suo un contributo fondamentale alla comprensione dell’intelligenza umana e fornisce strumenti critici per interpretare il funzionamento e le implicazioni dell’intelligenza artificiale. Nella prospettiva dell’intelligenza umana, il modello triadico di Charles Sanders Peirce — composto da segno, oggetto e interpretante — chiarisce come il significato emerga da un processo interpretativo in cui il soggetto associa simboli a concetti, basandosi su un’esperienza vissuta. Questo processo non è puramente meccanico, ma radicato nella soggettività, nell’emotività e nella consapevolezza, elementi centrali della cognizione umana.

Quando si analizza l’AI attraverso la semiotica, emergono affinità e differenze significative rispetto all’intelligenza umana. I sistemi di AI, tramite algoritmi avanzati, "imitano" il processo di costruzione del significato associando dati a rappresentazioni simboliche per generare output comprensibili agli esseri umani. Tuttavia, a differenza dell’intelligenza umana, il significato prodotto dall’AI non è sostenuto da un interpretante soggettivo, ovvero un’entità capace di riflettere, sentire e comprendere esperienzialmente. E’ sufficiente pensare al funzionamento "base" dei sistemi GPT (generative pre-trained transformer) a cui spesso abbiamo dedicato spazio nelle nostre pagine.

Questo "divario semiotico" segna la distinzione tra una cognizione simulata e l’esperienza autentica.

Tuttavia, questo divario è potenzialmente destinato a diminuire con il continuo progresso delle tecniche di intelligenza artificiale. Modelli sempre più sofisticati di machine learning e deep learning stanno integrando strutture complesse di apprendimento contestuale e adattamento dinamico, rendendo l’output dell’AI sempre più indistinguibile da quello prodotto da una mente umana, almeno agli occhi di un osservatore esterno. Tecnologie emergenti, come i modelli linguistici avanzati e i sistemi di intelligenza multimodale, sono progettate per gestire connessioni semantiche complesse, simulare empatia e rispondere in modo apparentemente intenzionale a situazioni specifiche.

Questa evoluzione non colmerà, plausibilmente, la mancanza di esperienza soggettiva, ma renderà il prodotto delle macchine sempre più coerente e convincente a livello semiotico, tanto che l’interpretante umano sarà spinto a riconoscere l’AI come dotata di una "quasi-intenzionalità". In futuro, l’osservatore potrebbe percepire tale divario come inesistente, focalizzandosi esclusivamente sul risultato del processo semiotico piuttosto che sulla natura del soggetto produttore.

Da una prospettiva psico-sociologica, l’intelligenza umana rappresenta ad oggi una risorsa fondamentale per il funzionamento e l’organizzazione della società. La capacità di adattarsi a contesti complessi, risolvere problemi e creare innovazione ha un valore economico diretto, poiché alimenta la produttività individuale e collettiva. Inoltre, l’intelligenza emotiva, intesa come capacità di comprendere e gestire emozioni proprie e altrui, sostiene la coesione sociale e la collaborazione, fattori indispensabili nei contesti lavorativi e comunitari. Non per caso molte teorie di organizzazione aziendale si fondano sulla valorizzazione delle competenze cognitive e relazionali, riconoscendo che il successo economico e sociale di un’impresa dipende non solo dalla capacità di innovare tecnologicamente, ma anche dalla qualità delle interazioni umane, dalla leadership empatica e dalla capacità di costruire ambienti di lavoro collaborativi e resilienti. Sul piano economico, tali competenze generano benefici tangibili, come la gestione efficace dei conflitti, l’aumento dell’engagement lavorativo e la riduzione dei costi associati allo stress e al burnout. Dal punto di vista sociale, infine, l’intelligenza emotiva contribuisce a costruire reti di supporto e fiducia, elementi essenziali per la stabilità e il progresso delle comunità.

Sociologicamente, il valore dell’intelligenza umana si manifesta dunque, anche al di fuori delle organizzazioni, nella capacità di generare capitale sociale e intellettuale, due pilastri fondamentali dello sviluppo economico e culturale. Le competenze analitiche, creative e interpersonali permettono agli individui di gestire le complessità.

Dal punto di vista strategico-aziendale, nelle strutture lavorative, l’intelligenza umana riveste da sempre un ruolo chiave nell’assunzione di decisioni strategiche, nella gestione del cambiamento e nella leadership, capacità che, anche in un contesto di crescente automazione, rimangono difficili da replicare da parte dell’intelligenza artificiale. Tuttavia, con l’avanzare dell’AI e soprattutto di quella di tipo generativo, emerge oggi un’interessante dinamica: se da un lato l’automazione riduce la domanda per alcune attività ripetitive, dall’altro mette in risalto il valore sociale ed economico delle capacità umane uniche, come la creatività, l’empatia e il giudizio morale, che diventano sempre più richieste in ruoli ad alta interazione e innovazione.

Questo cambiamento richiede (anche) un ripensamento delle strutture educative e formative, che dovrebbero concentrarsi sull’amplificazione di queste competenze per garantire che l’intelligenza umana continui a generare valore in un mondo sempre più supportato (e non rimpiazzato!) dall’AI. Così facendo, l’intelligenza umana non è solo potrà rimanere un fattore economico centrale, ma anche un elemento sociale indispensabile per adattarsi in contesti in continuo mutamento.

 

Il rapporto tra intelligenza umana e artificiale si estende anche oltre la funzionalità, toccando questioni esistenziali su identità e scopo. L’esplorazione di Hannah Arendt sulla condizione umana evidenzia la centralità del lavoro, dell’opera e dell’azione nel definire l’esistenza umana. L’incursione dell’AI nel lavoro e nell’opera artistica — domini tradizionalmente umani — impone una riconsiderazione di ciò che costituisce un’azione significativa. Lo spostamento dei compiti intellettuali di routine all’AI crea opportunità per gli esseri umani di impegnarsi in attività più creative e filosofiche, ma rischia anche di accentuare le disuguaglianze socioeconomiche, poiché l’accesso a tali opportunità è spesso stratificato e non del tutto egualitario.

La potenziale evoluzione dell’AI in sistemi capaci di rivaleggiare con l’intelligenza umana porta pertanto al centro del dibattito il valore strategico di quest’ultima, considerata, secondo il modello porteriano, come una risorsa chiave nella creazione di vantaggio competitivo. In questa prospettiva, l’intelligenza umana non si limita a produrre output, ma genera un valore intrinseco legato alla capacità di comprendere il contesto, innovare in modo originale e prendere decisioni basate su giudizi complessi. Dibattiti filosofici, come il gioco dell’imitazione di Alan Turing, ci spingono a considerare l’intelligenza non tanto per la sua origine quanto per il valore che essa produce in termini di risultati osservabili. Tuttavia, l’argomento della stanza cinese di John Searle evidenzia che, anche in sistemi avanzati, la manipolazione sintattica, per quanto accurata, non equivale alla comprensione semantica e quindi non riproduce il valore più profondo che deriva dalla cognizione umana.

Questo limite, ancora ben presente, segna per ora una differenza cruciale nei modelli di creazione del valore: mentre l’AI eccelle nell’efficienza e nell’elaborazione di dati, l’intelligenza umana apporta significati nuovi e contesto, elementi centrali per lo sviluppo di innovazioni strategiche.